"Città aperta" è al di là della consueta narrazione e mi ha stupito, annoiato, affascinato.
Si tratta di immergersi in una storia senza eventi principali, incentrata su ciò che il protagonista osserva. Ed osserva anche se stesso Julius, l'io narrante, come guardando da distante la sua stessa vita e a volte come stupendosi di farne parte.
Capitolo dopo capitolo, ci si rende conto di immergersi in uno sguardo, curioso e scarsamente coinvolto.
Certo, come in ogni vita, qualche evento da segnalare necessariamente c'è, ma ciò che accade pare più una macchia sulla tela che un disegno che definisce un paesaggio o un volto.

Attraverso la concretezza della narrazione, la lettura di "Città aperta" costruisce una suggestione che è ben evocata da questa considerazione: "Siamo i primi esseri umani completamente impreparati al disastro. E' pericoloso vivere in un mondo sicuro". Al di là del significato forte e specifico contenuto in quell'affermazione, è l'atmosfera che crea ad esemplificare il modo di essere del libro: una paziente costruzione, tassello dopo tassello, del non dicibile eppure così concreto che accompagna le nostre vite occidentali.
La cronaca ha New York come sfondo, la descrizione dettagliata, minuziosa e a tratti onirica delle sue strade e delle sue persone. I caffè sono luoghi di incontro casuale e di osservazione: un'arena privilegiata da cui cogliere vita senza appartenere a nessuna vita: "non ero dell'umore per sopportare gente che pretendeva qualcosa da me".
Ed il finale non è un finale, così come Julius è altro da sé, se non musica e passeggiate: è un libro di contraddizioni non dichiarate, ma potentemente evocate.
La lettura di "Città aperta" richiede pazienza, ma ripaga lasciando di sé la suggestione di un ricordo.
La lettura di "Città aperta" richiede pazienza, ma ripaga lasciando di sé la suggestione di un ricordo.