I milanesi ammazzano al sabato, di Giorgio Scerbanenco |
"C'era da piangere a pensare allo scempio che lei faceva di se stessa, ma le vie della vita quasi sempre erano spinose e stupide": il narratore sta parlando della prostituta che aiuta il commissario Duca Lamberti nell'indagine di un omicidio terribilmente odioso.
Con quelle poche parole Scerbanenco magistralmente e completamente disegna i sentimenti del commissario, le ferite del suo passato - di cui in questo romanzo si fanno solo alcuni incompleti e allusivi cenni: il suo dolore.
Il dolore è infatti l'evento chiave, l'esperienza in primo piano che evidenzia i contorni del romanzo e rispetto alla quale si staglia l'atteggiamento di fondo di Duca Lamberti: un ringhiare profondo e disperato.
Ed il ringhio fa da paesaggio sonoro alla vicenda di Amanzio Berzaghi: il padre della vittima.
"Guai a coloro che offendono un uomo mite": il controcanto del commissario è l'impetuosa, non premeditata ed inevitabile vendetta di un padre, già crudelmente provato dalla vita, a cui uccidono la figlia, brutalmente, dopo averne sfruttato le miserabili debolezze.
Scerbanenco ci apre lo sguardo su di un male assoluto, che non si presenta nella spettacolare lotta tra il diavolo ed un esorcista, ma nella vita già tormentata e silenziosa di un uomo comune: un male che tanto più dilania quanto più si ammanta di quotidianità.
La narrazione ci avvolge e, pur nella consapevolezza di come sia inevitabile trovare e punire gli assassini, "Perché i criminali non sono mai intelligenti", ci lascia nudi di fronte all'unica vincitrice: la morte.
La morte come spartiacque tra l'abisso ed un domani che comunque si fa innanzi, con la sua necessaria dose di speranza, che pure nasce dal dolore.