martedì 6 gennaio 2015

"Pioggia", di W. Somerset Maugham

Ciò che alberga nell'uomo è semplice e multiforme, tanto che facilmente si può rimanere colpiti, in una vicenda umana, da un esito così come dal suo opposto.
I due racconti che compongono Pioggia, di W. Somerset Maugham, sembrano narrati per ricordarci proprio quella caratteristica dell'uomo.

Il primo racconto, Pioggia, prende significato nelle ultime righe: i percorsi tortuosi attraverso cui esplode il desiderio di avere una donna sono una cristallina beffa all'indirizzo di ogni rigida moralità. La potenza, presunta, del probo fermo nella convinzione del valore della purezza e della punizione quale strumento di redenzione; ecco, di questa potenza il racconto si fa beffe, ma senza sorriderne, anzi, con sgomento. Nel leggere le poche parole che svelano il senso del racconto e rendono conto di come uno dei personaggi principali comprende infine ciò che ha vissuto, pare di vederlo mentre impallidisce ed il viso gli si imperla di sudore. Sudore freddo, perché la beffa del probo è pur sempre macchiata di sangue.

Il secondo racconto, Il reprobo, fa da controcanto al primo, poiché questa volta è la ferma moralità a farsi beffe del libertinaggio. Al centro degli eventi ancora una donna e lo sfondo degli eventi è ancora la tensione alla purezza, alla decenza dei costumi. E ancora è la morte a far da leva al cambiamento che disegna la beffa del libertino, che soccombe aderendovi alla purezza e convertendo senza mezze misure la propria condotta. Con analoga ineluttabilità e sgomento, si constata che la granitica volontà di puro edonismo si disfa nella purezza della donna conquistatrice e conquistata.

Entrambi i racconti testimoniano quindi, con una certa dose di disappunto e malinconica ironia, che non tanto le convinzioni sono caduche, quanto il ritenerle assolute: quando moralità assolute, nel convenzionale bene o nel convenzionale male, si incontrano, l'esito è imprevedibile. E amorale.

lunedì 5 gennaio 2015

Al di là di Bene e Male: nascere-morire.

Due narrazioni: una con pretese di cronaca storica e biografica, l'altra dichiaratamente inventata. In entrambe è in scena il male rappresentato come crogiolo del bene, come strumento di bene.
Sto parlando di un film, "Il Divo", scritto e diretto da Paolo Sorrentino nel 2008: film biografico dedicato alla vita e all'opera di Giulio Andreotti.
E di un libro, "Il cacciatore del buio", scritto da Donato Carrisi e pubblicato nel 2014: la narrazione segue le vicende di un penitenziere che, in incognito, indaga su una serie di omicidi, tutti emblema di un male incombente.
Ciò su cui mi soffermo in questo breve scritto non è il primo livello di lettura di queste opere, né quanta verità biografica vi sia nel film o quanto efficacemente sia scritto il libro.
Sono interessato alle pieghe entro cui la narrazione dilaga in entrambi i casi, a quegli anfratti scandalosi fatti della convinzione meno condivisibile, almeno tra il grande pubblico: la necessità di preservare e proteggere chi opera il male, in quanto leva per il manifestarsi del bene.
Nelle ultime scene de "Il Divo", Sorrentino fa rivelare ad Andreotti "la mostruosa inconfessabile contraddizione, perpetuare il male per garantire il bene".
Identico concetto esprimono i personaggi di Carrisi: "Il male amplifica la fede", "Il Male è la regola. Il Bene è l'eccezione".
Si tratta in entrambi i casi ed evidentemente di una deroga al principio di non contraddizione che così potentemente fonda la nostra ragione: gli opposti inconciliabili, gli eserciti nemici, apparentemente, ed eternamente in lotta si sovrappongono.
Il male è catalizzatore di bene.
Anzi, vista la dimensione assoluta dei due opposti, dovrei usare la maiuscola: il Male è catalizzatore di Bene.

Vale il viceversa? Il Bene è catalizzatore di Male?

Se accettiamo che il Male possa essere causa del Bene, mostrando che anche il Bene possa essere causa del Male giungeremmo al corto circuito supremo: Bene e Male sono apparenza, opinione, una diversa prospettiva da cui si guardano i fatti. In effetti, in base a dove ci si trova, un piano inclinato si presenta come una salita oppure una discesa. Siamo tutti concordi nell'ammettere che salita e discesa sono irrimediabilmente e concretamente cose diverse, eppure, il piano inclinato è il medesimo: è la nostra posizione relativamente al piano inclinato che produce la salita o la discesa.
Nel caso di Bene e Male, che cos'è il piano inclinato?

Andiamo con ordine e torniamo all'enunciato decisivo che va dimostrato: il Bene può essere causa del Male.
Se il Bene fosse assenza di Male, la sua presenza dovrebbe essere sufficiente, almeno là dove il Bene è presente, ad evitare l'insinuarsi del Male; ma così non è troppo spesso per intendere il Male come assenza.
Consideriamo infatti le religioni rivelate, le quali si propongono come presenza di Bene, in quanto emanazione diretta del vero Dio in nome dei quali parlano ed agiscono. Ammettiamo che esse siano sorgente di Bene: quanto più esse si radicano, tanto più il Male dovrebbe essere scacciato. Al contrario, quanti morti contiamo nella sola storia dell'Occidente in nome di questo o quel Dio? Se concordiamo nel riconoscere il Male là dove si uccide, è evidente che concordiamo che dal Bene possa aver origine il Male. E sottolineo il condizionale "possa": non sto enunciando delle necessità, ma delle possibilità che hanno facile riscontro nei libri di storia, scritti da qualunque punto di vista.
Ammetto di aver introdotto nel discorso un'ipotesi che, per quanto condivisibile (spero), resta tale: uccidere è Male. Non entro evidentemente nel merito di un Male considerato "necessario": le giustificazioni di questa natura sono irrilevanti nella ricerca dell'incontrovertibile. Ma evidenzio questa ipotesi perché uccidere è causare il morire di qualcuno e di conseguenza essa può essere riformulata con: causare il morire di qualcuno è Male. Riprenderemo poco più avanti questa formulazione.

Torniamo ora all'enunciato fondamentale che segue da quanto appena mostrato: la sostanziale equivalenza e conseguente inconsistenza di Bene e Male.
La risposta alla domanda fondamentale arrivò per caso, in una libreria di Piazza Castello, a Torino, a due passi dal Palazzo Reale, là dove si suggellò che si erano "inseparabilmente congiunti i destini della Patria e della Monarchia".
Si intitola "Il morire tra ragione e fede", dialogo tra Emanuele Severino e Angelo Scola.
La risposta arrivò per analogia: ragione e fede, due punti di vista sulla morte.
Bene e Male, due punti di vista sulla morte.

Occorre però andare oltre, perché per quanto evocativa sia la parola, "morte" è fondamentalmente niente più che il nostro stato d'animo di fronte ad un morto; tuttavia, così come non si sa bene che cosa sia la vita, altrettanto è inafferrabile la morte. E' quindi più proprio parlare di "morire" anziché di morte.

Ecco dunque la formulazione corretta: Bene e Male sono due punti di vista sul morire.
A questa formulazione aggiungiamo l'ipotesi che avevamo introdotto per mostrare che il Bene può essere causa del Male: causare il morire di qualcuno è Male.
Introduciamo gli opposti: Bene e Male, nascere e morire.

Giungiamo quindi all'enunciato finale: Bene e Male sono due punti di vista su binomio inscindibile nascere-morire.
Salita e discesa sono punti di vista, relativi: il piano inclinato è la "cosa".
Analogamente Bene e Male sono punti di vista, relativi: nascere-morire è la "cosa".

giovedì 1 gennaio 2015

Il divano serve per sedersi

Rendersi conto del disordine è facile, immediato come una sensazione insistente di fastidio.
Mettere a fuoco il disordine è meno immediato, perché la messa a fuoco richiede almeno l'intuizione di un'alternativa: in sostanza occorre avere dentro di sé almeno la scintilla dell'ordine, o, più modestamente, non-disordine. Questa scintilla delinea i contorni del disordine che si presenta ai nostri occhi, quindi ci permette dei metterlo a fuoco.
Il passo successivo richiede coraggio, perché si tratta di afferrare il disordine. Ed il coraggio richiede un momento di silenzio assoluto per emergere: il mondo, non è importante quanto fragoroso sia il suo delirio attorno a noi, deve sfocarsi e perdere consistenza. Si tratta di introdurre un atto creativo, che in quanto tale discrimina l'adesso dal passato. Fare ordine è creare.
Il silenzio. Dentro. Confine tra il disordine ed il non-disordine.
Il silenzio può essere inteso come assenza di suono e così ne si travisa la sostanza.
In primo luogo l'assenza di suono non esiste: almeno dentro di noi si muove sempre un incubo, un ricordo, un morso alla nostra consapevolezza. Tutte cose che fanno rumore.
Inoltre il silenzio è presenza: nulla di più distante dell'assenza.
Il silenzio è presenza di futuro.
Il futuro è realizzazione del progetto intrinseco ad una cosa.
Il divano è un progetto di riposo, accogliente e libero.
Un divano ingombro non può realizzare il progetto per cui è stato costruito: per questo è disordine e assenza di futuro. Non realizzando il suo progetto, il divano ingombro è avvitato nel passato.
Questa consapevolezza ha richiesto la sospensione del fluire degli eventi per essere messa a fuoco: fermando il tempo si è prodotto il futuro.