domenica 12 febbraio 2017

Post straordinario su "Scrivere è un mestiere pericoloso", di Alice Basso

Lo so: questo blog è ufficialmente abbandonato, con tanto di motivazione, dichiarata nel post che precede questo.

Eppure mi è accaduto di incontrare un libro così meritevole di essere descritto che, eccezionalmente, mi trovo nuovamente a dover scrivere di sensazioni. Le sensazioni che Alice Basso costruisce magistralmente con "Scrivere è un mestiere pericoloso".

Vani Sarca, la protagonista, è la pietra angolare, lo sguardo ed il senso della narrazione. Se incontrassi Vani, se esistesse, penso che me ne innamorerei all'istante. Una donna che raccontandosi dice "Taccio più forte" riluccica immediatamente di tesori rari, perché mostra di saper osservare.

Scrivere è un mestiere pericoloso,
di Alice Basso
Come nel ricordo di un campeggio in cui i genitori hanno trascinato la Vani ancor bambina e dell'immancabile terribile barbecue farsa che ne segue: "Intorno a lei, naturalmente, è tutto un allegro brulicare di gente decerebrata che ne va pazza".

Il disincanto filosoficamente gioioso, che fa affermare a Vani "Odio il potere che hanno gli eventi di plasmare le persone" e riconoscere che "La gente non vuole soltanto dirti che cosa fare. La gente vuole la tua anima" si specchia meravigliosamente nel suo controcanto, maschile e di vent'anni circa più in là nel tempo: il commissario Berganza.

Berganza è la realizzazione del silenzio musicale e ricco di umanità che Vani ama
"[...] una sociopatica controcorrente come me": così Vani si descrive per contrasto con tutto il resto del genere umano, accendendo di tenerezza la sua vivace voglia di quel silenzio. 

Al di là della trama in cui la vediamo intrecciarsi, la protagonista esprime la sua essenza con un linguaggio perfetto. Non c'è altro modo di raccontare le parole con cui Vani descrive il termine del barbecue di cui sopra: "Tutt'attorno, i grandi stanno finendo di sistemare. Sono lenti come una morte per dissanguamento."

Grazie al linguaggio perfetto e allo sguardo intelligente di Vani, Alice Basso ci mostra quali tratti disegna in una persona ciò che ormai e da sempre è appannaggio di pochissimi: la limpida onestà intellettuale. Quella, per intenderci, che obbliga a chiamare le cose con il loro nome...

domenica 1 maggio 2016

Un nuovo blog, un obiettivo: la gestione del tempo

Come promesso nell'ormai lontanissimo post di chiusura di questo blog, vi lascio il riferimento della nuova esperienza che ho deciso di intraprendere: lucavettor.net

lucavettor.net è dedicato a porre domande su come impieghiamo il tempo ed ha come indirizzo il mio nome per una ragione molto forte: il time management è la missione a cui intendo rivolgere il mio impegno nei prossimi anni.

Il tempo ha una caratteristica unica: la quantità a disposizione è uguale per tutti (certo finché c'è vita, ma questo è un altro discorso...) eppure il valore è estremamente diverso in base a come ciascuno lo impiega.

Il tempo scorre (almeno questa è la nozione più comune che di esso abbiamo qua in Occidente) ed il suo scorrere è la sostanza di tutto ciò che possiamo essere.

Non sono queste caratteristiche sufficienti a dedicare al tempo un po' di attenzione in più?

giovedì 31 dicembre 2015

L'esperienza de "L'invenzione della scrittura" si conclude

Cari Lettori,

Un'esperienza prende senso all'interno di confini definiti e specialmente in quei confini che chiamiamo con la parola dal tratto deciso quanto inafferrato: il tempo.

E' trascorso un anno dal primo post, dal contenuto casuale, raggiungendo gradatamente la consapevolezza per cui il miglior omaggio alla scrittura non possa che essere la narrazione delle sensazioni che i libri letti mi hanno donato.

In prossimità del 2016 è tempo di intraprendere una strada più consapevole, lasciando libero questo blog di aleggiare nell'eterno di internet con la misura di vita che contiene e che vi affido.

Seguirà un ultimo post (quando non mi è ancora dato sapere) con le coordinate della mia prossima avventura...

See you

PS: felice 2016!

giovedì 24 dicembre 2015

Per sapere la verità, di Maria Masella

Con "Per sapere la verità" Maria Masella ci immerge in una narrazione per punti di vista che fa magistralmente da controcanto al titolo che esibisce due delle parole più pregnanti per ogni civiltà ed in particolare per l'Occidente: sapere e verità.

Il pretesto è fornito dall'incontro tra il mondo della matematica di professione con l'omicidio: un incontro che deflagra nella vicenda di una moglie a cui inaspettatamente uccidono il marito, matematico.

Per sapere la verità, di Maria Masella
Per sapere la verità,
di Maria Masella
La moglie, di cui conosciamo stati d'animo e pensieri con immediatezza e trasparenza, è il punto di vista principale nella ricerca della verità: una sorta di costante flusso emotivo che viene contenuto e formato dall'altro punto di vista, il commissario.

La tridimensionalità della moglie spicca accanto alla piattezza del commissario, un po' stereotipato, per quanto efficace nel suo compito: "Sono un poliziotto che spesso dimentica di esserlo e invece di cercare i colpevoli cerco la verità."

Entrambi i punti di vista sono, ciascuno con le proprie nettissime caratteristiche, le macchine del sapere: il lavorio faticoso e incessante che segue la frattura che un omicidio spietatamente causa nelle vite dei protagonisti.

La matematica resta in sottofondo, discreta e coinvolta non tanto con il suo proprio volto, ma come simbolo allo stesso tempo nobile e meschino delle ansie degli uomini, tesi verso la verità nelle intenzioni, verso se stessi nei fatti.

Come accade infatti in ogni noir, in scena vediamo rappresentato un cortocircuito, che accade quando un pensiero, una volontà, un desiderio diventano assoluti, oltre il valore della vita: allora l'assassino prende il largo e dimentica che "Sono le sciocchezze a darci il senso della nostra debolezza."

E uccide.


domenica 13 dicembre 2015

Il mercante di libri maledetti, di Marcello Simoni

Marcello Simoni catapulta il lettore all'inizio del 1200 narrando le vicende di un mercate-studioso, Ignazio da Toledo: "Era un uomo razionale e curioso, sempre in bilico fra il mondo dei laici e quello dei dei chierici. Per giunta aveva viaggiato molto, e ciò esercitava sul ragazzo una forte attrattiva."

Il ragazzo in questione è Uberto, che condividerà i pericoli e l'esaltazione dell'avventura di Ignazio, vivendo con lo stesso una dinamica discepolo-maestro che forse un po' troppo da vicino ricorda, anche se in modo sbiadito, quel che Eco narrò ne "Il nome della rosa".

Completa la compagnia il francese Willalme, dal passato infelice, sanguinoso e sanguinario che mi piace presentare attraverso l'espressione della sua profonda ferita: "Maledico Arnaud-Amaury! Maledico Simon de Montfort! E che Innocenzo III bruci all'inferno, fra i demoni suoi fratelli!"

Il mercante di libri maledetti, di Marcello Simoni
Il mercante di libri maledetti, di Marcello Simoni
I tre sono perennemente in fuga, inseguiti da un nemico potente, determinato, assassino, ossia la "Saint-Vehme": "Si dice che la Saint-Verme fu istituita da Carlo Magno per mantenere l'ordine nelle terre germaniche. Si tratta di un tribunale segreto composto da cavalieri che avevano diritto di vita o di morte su chiunque."

Quel tribunale è l'ennesimo esempio di potere che esplica originarie nobili intenzioni attraverso crimini volti all'incremento infinito del proprio potere.

Si tratta in questo caso del potere occulto, che un libro, l'Uter Ventorum, darebbe a chi, entratone in possesso, fosse in grado di decifrarne il contenuto.

La visione magica del mondo medievale di inizio Duecento è l'orizzonte mentale entro cui i nostri protagonisti si muovono, pur alimentando l'allora debolissima fiammella di una più fondata razionalità: "Anche le configurazioni astrali seguono un principio razionale e ogni singolo corpo celeste si muove secondo leggi numeriche."

E dico che la fiammella è ancora assai debole, perché le stesse categorie che quella flebile luce illumina sono irrazionali e ambigue: "La verità non è venuta al mondo nuda, ma in simboli e in immagini, insegna il Vangelo di Filippo".

Al centro c'è però un uomo, Ignazio, che seppur distante da noi nel modo di esprimere la propria sensibilità, rappresenta la più radicata e commovente fragilità che in ogni tempo abbiamo noi umani: "Io non sono più niente, solo polvere di un ricordo."

lunedì 7 dicembre 2015

Il decaffeinato come segno del nichilismo.

Il decaffeinato come segno del nichilismo.

Il caffè decaffeinato è una contraddizione, come dire che l'essere è niente.

Non a caso il caffè decaffeinato è un'invenzione dell'Occidente contemporaneo: il 1905 è la sua data di nascita, Brema la sua culla.

Accorgersi che la tazzina che ho in mano contiene il nichilismo in forma di bevanda calda e rassicurante è quantomeno buffo: sembra di vedersi improvvisamente allo specchio e scoppiare a ridere perché ci si riconosce.

E' ovvio che il caffè decaffeinato non sia un non-caffè, quindi che la mia tazzina non contenga un paradosso, se pensiamo alla natura materiale del decaffeinato.

Ciò che è significativo è il nome con cui è nato e che viene pronunciato milioni, forse miliardi, di volte al giorno: si tratta di un nome che identifica una cosa descrivendola a partire da ciò che pretende di non essere, essendo stata privata, quella cosa, proprio della sua essenza, la caffeina.

Non essere: questo il nostro mondo, per ciò detto nichilista.

Corriamo, produciamo, creiamo: tutte attività che richiedono il niente per essere, per affiorare nel divenire.

Per questo riusciamo a bere il niente: ce ne cibiamo al bar, così come in ogni tempo e luogo.

domenica 6 dicembre 2015

Jakob von Gunten, di Robert Walser

Jakob von Gunten è sia il nome del protagonista sia il titolo del romanzo: già questa identità lascia presagire ciò che si manda in scena, ossia la gloriosa piattezza della mediocrità.

La scelta di vita di Jakob dà il la alla narrazione: nato in una prestigiosa famiglia, decide di percorrere una più concreta strada scegliendo di affidarsi ad una scuola per maggiordomi e persone di servizio.

"L'insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell'inculcarci pazienza e ubbidienza": nel descrivere la scuola in cui sceglie di entrare, Jakob ci informa presto di come lo svilimento di un nobile mestiere e delle anime sia il meschino risultato a cui i suoi insegnanti tendono.
Jakob von Gunten, di Robert Walser
Jakob von Gunten, di Robert Walser

Tacerò in queste righe ogni riferimento agli insegnanti, perché di essi possiate farvi un'idea personalmente leggendo il romanzo ed allo stesso tempo perché possiate intuirne lo spessore dai tratti del loro allievo Jakob.

"Andiamo vestiti in uniforme: ebbene, questa circostanza di portare un'uniforme ci umilia e nello stesso tempo ci esalta": quali lugubri ricordi evoca questa considerazione a noi che, a differenza di Walser scrivente di Jakob, possiamo leggere la storia completa del Novecento?

Jakob realizza la quotidianità del mediocre felice di aver preso congedo da ogni volontà: "Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla".

Perché un tempo Jakob provava ripulsa per la mediocrità, ma "Quello che allora mi sembrava ridicolo e idiota, oggi mi appare bello e decoroso": ecco che l'uomo Jakob è spento, pronto ad essere un ubbidiente nessuno.

Ancor meno che suddito, Jakob, al termine della sua formazione, è il perfetto prototipo di un menzognero ("Ci sono delle sincerità che non fanno che annoiare e ferire") omologato ("Ma conformarsi è più elegante, assai più elegante che non il pensare") sicario ("La vita, lo sento, esige effervescenza, non riflessione") della verità.