lunedì 29 giugno 2015

"La lottatrice di sumo", di Giorgio Nisini

"La lottatrice di sumo" è il canto di una perdita, inattesa e annientante, così profonda da estendersi per una vita intera: la perdita, sul finire dell'adolescenza, della propria fidanzata.
"La lottatrice di sumo", di Giorgio Nisini
"La lottatrice di sumo", di Giorgio Nisini

Lei muore, tragicamente e quasi presagendolo, e lui, il protagonista e voce narrante del romanzo, rimane, lacerato. Si forma una famiglia, nel proprio lavoro ha successo, acquisisce una visione del mondo razionale e rassicurante: eppure la ferita non si rimargina, anche se non sanguina a fiotti come un'arteria recisa, come ci si aspetterebbe.

"[...] forse non ero mai stato veramente disperato per la morte della mia ragazza, non lo ero stato come poteva esserlo stato la signora De Angelis, o come la madre di qualsiasi altra figlia morta in circostanze improvvise [...] era stato piuttosto un dolore violento e quasi senza respiro, ma comunque un dolore attenuato dalla giovane età che avevo allora": in questa descrizione troviamo l'anatomia di un dolore così originario che, parasossalmente, si fa motore di vita.

Si mette cioè in moto sia la naturale autodifesa che porta a buttarsi nel futuro, nell'illusione di dimenticare, sia, in controcanto, una malinconia di fondo che porta a sfidare quel muro infinito tra noi e chi non c'è più: la trama si intreccia quindi alla vicenda di un artista-medium e della comunità da lui fondata, composta da persone convinte di aver ricevuto, tramite le sue opere, messaggi dall'al di là.

Infine, la risposta alla sfida necessariamente persa contro la morte: un figlio, una nuova vita, una nuova memoria da costruire, sconnessa da ogni morte precedente e per questo a suo modo vincente, al di là.

domenica 21 giugno 2015

Recensioni e sensazioni di libri

Memoria e spontaneità

Ho iniziato a scrivere in questo blog le recensioni dei libri che leggo con un fine preciso: alimentare la memoria delle mie letture. 
La forma dei miei brevi scritti non è stata pianificata: ho finora scritto spontaneamente.
Ora, però, sento il bisogno di dedicare qualche minuto a riflettere su ciò che la spontaneità sta producendo; perché è evidente che non sto scrivendo recensioni, ma sensazioni.

Sensazioni

Scrivere recensioni che hanno come forma e contenuto le sensazioni che i romanzi hanno evocato in me ha due facce.
Scrittura che evoca, proietta
Scrittura che evoca, proietta
E' un atto di umiltà, dal momento che i recensori, professionisti e amatoriali, sono già moltissimi e con più esperienza e talento di me: non ci sarebbe quindi ragione di riproporre dei contenuti già disponibili in quantità e di qualità.
Ma è anche un atto di presunzione, perché suppone che la mia personale e discutibile opinione possa avere un qualche interesse.

Valore

Perché, dunque, le mie sensazioni dovrebbero avere valore?
Rispondo illustrando brevemente che cosa distingue una recensione, propriamente detta, dalle mie sensazioni, auspicando che proprio in questa differenza si possa trovare del valore.

A cronaca e giudizio sostituisco l'evocazione: l'esperienza del libro

Una recensione in genere ha due componenti: una oggettiva, cioè la presentazione dell'autore e della trama, ed una soggettiva, cioè un giudizio, espresso a parole o con stellette di varia foggia.
I miei brevi scritti sono, al contrario, privi di oggettività e sostituiscono il giudizio con l'evocazione.
In entrambi i casi abbiamo una descrizione, ma l'approccio evocativo che sto perseguendo avvicina al romanzo tramite il racconto della sua esperienza, tralasciando ogni pretesa di oggettività e giudizio.
Ecco la differenza. Ed il possibile valore.

Conclusione

Credo sia vano scrivere per giudicare e meramente ricapitolare altri scritti: voglio usare la scrittura per evocare l'eterno che c'è in ogni racconto che leggo.

"La ragazza dello Sputnik", di Murakami Haruki

Murakami Haruki è il dio della sensualità che dà materia all'anima. "La ragazza dello Sputnik" si dispiega in una narrazione che, dal punto di vista della trama, è incompiuta e nonostante ciò, o proprio per questo, si avviluppa al lettore e permane, similmente alla memoria dei sensi.
"La ragazza dello Sputnik", di Murakami Haruki
"La ragazza dello Sputnik", Murakami Haruki

Anche dopo mesi dalla lettura, quando i contorni precisi dei personaggi e dei fatti si sfumano, l'atmosfera del romanzo, intima e disperata, ha ancora eco nel lettore. La protagonista, Sumire, è infatti parte dell'umanità, emotiva e grezza, tenera e totale. Ed il narratore senza nome è altrettanta parte speculare dell'umanità: è l'osservatore, coinvolto e non coinvolto, come uno scoglio contro cui si infrange l'onda Sumire, che lo bagna e si ritrae e ritorna e si ritrae.

E tra di loro il mare, il terzo personaggio femminile, dirompente: Myu. Se il narratore è lo scoglio e Sumire l'onda, Myu è il movimento: il motore del dramma. Se ci si allontana un po' dalla narrazione, socchiudendo gli occhi per mettere più a fuoco le loro anime, o ciò che ne appare, i tre personaggi si fondono e si intravede la natura dell'uomo, qualunque essa sia.

"Mise in bocca un'oliva, con le dita ne prese il nocciolo e lo gettò nel posacenere, con grazia, come un poeta che aggiunge una virgola a un sonetto." Questa immagine, pittorica ed elegante, è lo sfondo su cui si rivela la svolta del romanzo e che dà la misura di come i personaggi sentano gli eventi: con educazione e disciplina, come inscrivendo anche i sentimenti più potenti in una visione del mondo ordinata, prospettica.

Leggere Murakami Haruki sospende il tempo: senza dichiararlo, ci allontana impercettibilmente dalle nostre abitudini - di noi uomini dell'Occidente europeo - dalle nostre abitudini emotive e concettuali e ci guida in una sorta di sonno, come un respiro finalmente libero dopo essere stato a lungo trattenuto. E nulla è mai risolto.

domenica 14 giugno 2015

"Calista Battaglia... tutta colpa del rock", di Lucia Potacqui

Romanticamente rock: ecco la sensazione che aleggia in me dopo aver letto l'ultima pagina. Calista Battaglia è un personaggio che conduce per mano attraverso il dolore, la rivincita, i pensieri e le reazioni esagerate, la dolcezza e il panico. Sempre con i'iPod a scandire gli accadimenti con la musica adatta. Sempre con il rock che emana energia e limpidezza, da ogni pagina.

"Calista Battaglia... tutta colpa del rock", di Lucia PotacquiIl romanzo si sviluppa come una mappa dell'anima di Calista. La trama non ci sorprende, gli eventi si succedono senza sorprese eclatanti. Noi lettori non siamo sorpresi, ma Calista sì: la protagonista è cristallina e rock nel reagire a ciò che le accade e che già è accaduto milioni di volte a milioni di donne. Perché non è nuovo il sole che sorge ogni mattino, ma siamo nuovi noi a guardarlo.

Gli accadimenti ci portano in viaggio lungo quella mappa e ci troviamo ad attraversare i segni eterni della morte, specie quella di cui non sappiamo darci ragione, il buio ed il suo parto più atroce: l'insicurezza che sospende la vita.

Eppure, anche in quanto vi è di più definitivo, la vita riesce a produrre una crepa. Ed in quello spiraglio prende respiro la narrazione: Calista lotta, sempre, ed anche quando dichiara la sconfitta, senza poterlo ammettere, prepara con determinazione il lieto fine.

Romanticamente rock, dicevo in principio, perché di una storia d'amore si tratta, il cui valore va cercato e trovato nella speranza che come un'edera avvolge ogni parola e si fa trasparente e necessaria come l'aria.

domenica 7 giugno 2015

Stare in coda, racconto di un'attesa

La coda: inevitabile strumento di risoluzione delle priorità. 

La coda è spesso vissuta come fastidio, se non in rari casi, quando l'attesa in coda è parte del piacere promesso al termine della coda stessa. Ed è in questo senso che la coda è una bellissima metafora di ogni racconto, in cui personaggi ed eventi sfilano ordinatamente uno dopo l'altro, ciascuno pazientemente aspettando il proprio turno.

D'altra parte quando iniziamo a leggere la prima pagina di un libro oppure vediamo il primo minuto di un film, non è forse vero che ci stiamo mettendo in coda per assistere agli eventi che, nell'ordine deciso dall'autore, ci verranno via via mostrati sino al termine di quel racconto?

Ed è anche vero che la coda è il ritmo del racconto: troppo corta o troppo lunga rovina la narrazione, deve essere "giusta", in armonia con ciò di cui è la cornice temporale. 

La coda per acquistare il biglietto di entrata in un museo, come nella foto che illustra il post, può non suscitare i pensieri di cui sto scrivendo, ma a pensarci con sguardo distaccato cos'altro è se non un mettere in relazione ordinata le persone in fila? E le persone in fila sono ciascuna uno scrigno di storie, tante storie che si trovano così vicine nello spazio che, se potessero dialogare, darebbero origine a romanzi sorprendenti.

sabato 6 giugno 2015

"Versilia Rock City", di Fabio Genovesi

Si legge velocemente e sentendosi subito a proprio agio nell'incosciente, rude e simpatica immediatezza dei personaggi e delle loro vite. La semplicità avvolge ogni cosa e l'ammanta di verità profonda.

Il protagonista mostra uno sguardo stranito quando pensa alla propria vita: "E comunque. Ho un brutto rapporto io col passato. Mi sa che a un certo punto ci siamo fatti uno sgarbo e non ci parliamo più". 

Tutti i personaggi sono in qualche modo storti rispetto alla normalità, come Roberta, descritta inizialmente così: "C'è chi non può soffrire i cani, i ragni, gli acari, a lei capita con la gente."

E tutti hanno l'atteggiamento serio e incondizionato del bambino che esplora la vita. Certo, esplorando può capitare di ferire, rompere, passare come carri armati su di un prato di violette: è la vita, non è cattiveria, non c'è la pesantezza morale delle "persone per bene".

Avendo a disposizione un avverbio e un aggettivo per descrivere "Versilia Rock City" direi: teneramente spietato. E' spietato pensare: "E poi non è che magari le cose sbagliate ci vogliono, che servono a reggere quelle giuste?" Ma c'è anche una tenerezza infantile e perciò crudele, senza rimpianti.

Fa bene leggere l'immediatezza dei ragionamenti esposti con linguaggio rude, simpaticamente volgare, senza filtri, autentico. E' come tuffarsi in un'infanzia sospesa nel tempo, esplosa intatta nelle vite adulte, piene di crepe, dell'umanità che vive nelle pagine del romanzo.

Si legge velocemente, dicevo in principio, e questa rapidità mima perfettamente la visione del mondo espressa, in cui passato, presente e futuro sono fusi in un unico anelito di riscatto. Il tempo implode, si fa molla che carica il desiderio di rivincita.

lunedì 1 giugno 2015

"Città aperta", di Teju Cole

"Città aperta" è al di là della consueta narrazione e mi ha stupito, annoiato, affascinato.

Si tratta di immergersi in una storia senza eventi principali, incentrata su ciò che il protagonista osserva. Ed osserva anche se stesso Julius, l'io narrante, come guardando da distante la sua stessa vita e a volte come stupendosi di farne parte.

Capitolo dopo capitolo, ci si rende conto di immergersi in uno sguardo, curioso e scarsamente coinvolto.
Certo, come in ogni vita, qualche evento da segnalare necessariamente c'è, ma ciò che accade pare più una macchia sulla tela che un disegno che definisce un paesaggio o un volto.
In fondo, nella cronaca di vita che leggiamo c'è tutto ciò che ci si aspetta: un passato che mostra le sue inevitabili propaggini nel presente, degli affetti, un amore, una famiglia con luci e conflitti, un lavoro, i viaggi, anche la violenza. Eppure manca un nesso: i vari accadimenti sono giustapposti, ma debolmente in relazione tra loro se non per il fatto di entrare a far parte della vita dell'io narrante. La possibilità di relazioni più forti e definite non è negata, semplicemente è una questione che non viene posta, così come non ci appassioniamo più a discutere del sesso degli angeli: è una dimensione che non ci appartiene, almeno non di questi tempi.

Attraverso la concretezza della narrazione, la lettura di "Città aperta" costruisce una suggestione che è ben evocata da questa considerazione: "Siamo i primi esseri umani completamente impreparati al disastro. E' pericoloso vivere in un mondo sicuro". Al di là del significato forte e specifico contenuto in quell'affermazione, è l'atmosfera che crea ad esemplificare il modo di essere del libro: una paziente costruzione, tassello dopo tassello, del non dicibile eppure così concreto che accompagna le nostre vite occidentali.

La cronaca ha New York come sfondo, la descrizione dettagliata, minuziosa e a tratti onirica delle sue strade e delle sue persone. I caffè sono luoghi di incontro casuale e di osservazione: un'arena privilegiata da cui cogliere vita senza appartenere a nessuna vita: "non ero dell'umore per sopportare gente che pretendeva qualcosa da me". 

Ed il finale non è un finale, così come Julius è altro da sé, se non musica e passeggiate: è un libro di contraddizioni non dichiarate, ma potentemente evocate. 

La lettura di "Città aperta" richiede pazienza, ma ripaga lasciando di sé la suggestione di un ricordo.