domenica 15 novembre 2015

La mano, di Henning Mankell

In onore della recente scomparsa di Henning Mankell, ho letto il suo ultimo romanzo: "La mano".

Si tratta della cronaca di una vendetta, uno dei motori più potenti dell'omicidio. Motore potente di cui qui non mi interessa descrivere lo svilupparsi nella trama del romanzo, bensì solo come colore di fondo per una riflessione.

Iniziamo con il protagonista ed il fatto: il commissario Wallander, che letteralmente inciampa nel cadavere, quindi inciampa nella morte.

La mano, di Henning Mankell
La mano, di Henning Mankell
Wallander, per il suo lavoro, è avvezzo a ricostruire storie a partire da quanto gravita attorno a ciò che resta di una vittima: di mestiere, egli agghinda la morte con storie che, per quanto crude e crudeli e fonte di condanna, restituiscono conforto proprio con ciò che perseguono: l'assassino.

Ed ecco la mia riflessione: la storia che ricostruisce ciò che di un uomo ha fatto un assassino è doppiamente di conforto.

Un conforto emotivo: il colore di fondo, la vendetta, avvicina vittima e carnefice in un intreccio inaccettabile di reciproca ricerca di morte. Si tratta del conforto dell'azione, che scongela di fronte allo sgomento di quell'inattesa eterna assenza.

Ed un secondo conforto razionale: l'assassino si carica completamente del ruolo di causa della morte, dandole un senso. Un senso straziante, ma non di meno un senso a cui si può far riferimento. L'assassino in quanto colpevole incarna ciò che sarebbe altrimenti definitivamente sfuggente: la morte in sé.

"La mano" non è il romanzo giallo migliore che possiate leggere, ma se gli darete modo di svilupparsi, vi dipingerà un'atmosfera di spessa malinconia e adulta consapevolezza: di entrambe è bene leggere.